Dopo l’ennesimo suicidio di una studentessa universitaria, che aveva taciuto a tutti il mancato raggiungimento di risultati invece dati per acquisiti, si è aperta una forte protesta. È messo sotto accusa l’intero sistema basato sul giudizio, sulla competizione, sulla performance.

Gli universitari pretendono il diritto a uno studio che contempli la possibilità di fallire, la necessità di rallentare, il bisogno di mostrare fragilità che spaventano.

“La vostra università ci uccide”, scrivono ora gli studenti su Palazzo Giusso, una delle sedi dell’Orientale di Napoli. “Non si può morire di università”, recita lo striscione davanti a Economia a Palermo. “Pretendono che siamo infallibili e chi non ce la fa è un fallito”, si legge su un cartello alla Federico II. Sono gli slogan dei flash mob di Milano, Perugia, Palermo, Sassari, Lecce, Firenze, Cagliari, Modena, Pavia, Messina, Forlì.

Accusare le Università mi pare davvero assurdo: il messaggio va diretto altrove. Il problema è grave ma rimane, a mio avviso, interno alle famiglie e alla società. Le prime forse troppo concentrate nel proteggere e pretendere risultati da figli ossessionati a loro volta dalle aspettative dei genitori. E una società che, invece, seleziona in modo diverso (e non sempre solo per meriti).

Molti genitori proteggono e pretendono, anche a prescindere dalle concrete possibilità e volontà dei figli. E questi, compressi tra protezione effimera e pretese nascoste, si ritrovano lanciati contro il muro di una società reale e cinica, che non perdona.

Un figlio che non parla di eventuali problemi o insuccessi, non è un figlio incapace ma un figlio che ha paura di parlarne. Di deludere chi non lo sa ascoltare e accettare. E questo non è un problema dell’Università.

Il problema è, piuttosto, tutto in quel contesto familiare che funge da placenta anomala: apparentemente li protegge, di fatto li distrugge.


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