Sabato 11 aprile 1953, vigilia di Pasqua. Sulla spiaggia di Torvajanica in località Capocotta, una zona balneare non distante da Roma, viene ritrovato il cadavere della ventunenne Wilma Montesi. Le cause della morte non sono chiare: l’autopsia parla, genericamente, di malore, da far risalire a due giorni prima, il 9 aprile.

Eppure, le redazioni dei quotidiani vengono attraversate da ‘voci’, ‘rumores’ che non trovano subito lo sbocco della pubblicazione: Wilma Montesi sarebbe morta forse per overdose di droga o per un semplice malore, ma durante un’orgia in una villa del marchese Ugo Montagna. Orgia alla quale avrebbe preso parte il musicista Piero Piccioni: si tratta del figlio di un importante notabile democristiano, il già ministro degli Esteri Attilio Piccioni, destinato ad ereditare da Alcide De Gasperi la leadership della Democrazia Cristiana (all’epoca il più importante partito di governo).

Piero Piccioni, musicista assai noto negli ambienti della RAI, del cinema e del jazz, non solo smentisce ma querela. Tuttavia, sarà egli stesso vittima di un meccanismo perverso, fatto di invidia, ambizione politica e disonestà intellettuale.

Si aprirà un incredibile processo, uno dei più celebri del Novecento, perché la giustizia non farà altro che rincorrere, drammaticamente, la stampa, disinteressandosi di fatto della povera vittima e creandone altre. Un turbillon di accuse e affermazioni senza senso, in un avvicendamento circolare della giustizia e della stampa, destinate a dare forma ad una sola cosa: il pregiudizio.

Montesi verrà assolto. Non certo la stampa e la magistratura che, talvolta, hanno dato e danno pessima prova di sé.

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Per approfondimenti, rimando al capitolo “Le voci: il caso Montesi (1953-1957)” del mio libro “Prima di giudicare. Stereotipi e pregiudizi in dieci grandi processi”, Intra, 2020, pp. 75-85.


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© Gianluca Sposito