L’invito è di quelli ironici? Certo. Ma qual è il giuridichese? Esattamente questo (testo tratto da un atto d’appello penale):

“Appare sterile esercizio sofistico quello tentato in sentenza per giustificare e motivare una decisione di pesante responsabilità penale, irrogante non lieve pena detentiva a carico dell’appellante, supportandosi e fondandosi non a convergenze del molteplice indiziario, non a un tessuto probatorio serio, univoco, tranquillante, sillogisticamente ineccepibile, bensì, in buona sostanza, supportandosi soltanto a plurime attenuazioni delle infinite discordanze emerse, a continue svalutazioni delle prove e risultanze a discarico, ad enfatizzazioni ed ipervalutazioni di monistiche interessate delazioni, con lo scopo di geometrizzare un teorema destinato fin dall’origine a fallire in quanto fondato su meccanismi occulti di convincimento tutt’altro che rigorosamente razionali. In altre parole, il dato fenomenico più appariscente della globale motivazione di sentenza risulta la preoccupazione di scansare reiteratamente le varie innegabili discordanze, anomalie, incongruenze, illazioni, avvantaggiando unicamente ed apoditticamente la direttiva colpevolistica indicata dall’unico teste accusatore. Circa il quale, invano il vaso processuale e l’istruttoria dibattimentale stessa si sono ben colmati di nitide e cospicue attestazioni di inattendibilità oggettiva e soggettiva, sia in assoluto che in riferimento particolare ai molti elementi e parti del processo. La sentenza ha cercato di rendere evanescenti le contraddizioni concernenti il carico accusatorio, ha proposto versioni inverosimili ai fattori obiettanti, ha risolto sommariamente le opposte dichiarazioni testimoniali”.

I problemi principali? Eccesso di subordinate, lessico che fa uso di tecnicismi non necessari, ecc. ecc. Risultando, in concreto, scarsamente leggibile e, dunque, efficace.

Nel mio volume “In nome della lingua italiana” riporto, a mo’ di esempio, la riscrittura che del testo fa la linguista Patrizia Bellucci:

“La sentenza giustifica e motiva una decisione di responsabilità penale pesante con un’argomentazione evidentemente forzata. Infatti, la sentenza infligge all’appellante una pena detentiva grave, ma non si fonda su un insieme di indizi coerente né su prove solide, univoche e logicamente ineccepibili. Essa, in sostanza, banalizza progressivamente le infinite discordanze emerse e svaluta di continuo prove e risultanze a discarico; al contrario, concede eccessivo credito ed enfasi a delazioni isolate e interessate di singoli. Tuttavia, questo tentativo della sentenza di costruire un ‘teorema’ è necessariamente destinato a fallire, perché si fonda su meccanismi di persuasione occulta e non su una argomentazione razionale e rigorosa. Appare, infatti, del tutto evidente che la motivazione complessiva della sentenza cerca continua- mente di non dare peso alle numerose e innegabili discordanze, anomalie, illazioni e incongruenze, mentre privilegia, senza argomentazione logica, l’indicazione di colpevolezza offerta dall’unico teste accusatore. Fra l’altro, l’inattendibilità oggettiva e soggettiva di questo teste è emersa in modo evidente nel processo e nell’istruttoria dibattimentale, sia in assoluto che in relazione a precisi elementi o parti del processo stesso; eppure non se ne è tenuto conto. La sentenza ha cercato di vanificare le contraddizioni contenute nell’accusa, ha opposto versioni inverosimili alle obiezioni sollevate e ha risolto in modo sommario la contraddizione fra le opposte dichiarazioni dei testi”.

Insomma, occorre riflettere sui limiti di questa forma di linguaggio giuridico, che sfocia nell’antilingua (di Calvino).

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© Gianluca Sposito