l New Yorker, prestigioso settimanale americano, si è espresso proprio così nei confronti del film della coppia di cineasti belgi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch che adatta l’omonimo romanzo di Paolo Cognetti.

Scrive Richard Brody che la sua definizione di “film lento” – definizione che applica, senza esitazione, a “Le otto montagne” – non riguarda l’azione, ma il pensiero: “alcuni film con una drammaturgia sobria e riprese lunghe, statiche, offrono un profluvio sferzante di idee, mentre ‘Le otto montagne’ non è solo un film lento nell’azione, nella successione delle immagini, ma anche quasi privo di idee e, se non di idee, della capacità di esprimerle“. 

Il critico, nella sua analisi, si concentra in particolar modo sui dialoghi e la loro funzione. Osserva che le parole che si scambiano i personaggi – i due protagonisti, Pietro (Luca Marinelli) e Bruno (Alessandro Borghi), prima bambini e poi adulti – servono unicamente l’avanzamento del plot: non rivelano nulla né della dimensione emotiva o intellettiva dei personaggi né, soprattutto, delle relazioni con l’ambiente sociale di cui le loro soggettività dovrebbero essere espressione.

Prima di leggere questa critica sul New Yorker avevo avvertito, nel film, un limite su tutti: una lentezza generalizzata. Però – bisogna comunque ammettere – non avremmo potuto certo avere un profluvio di parole e dialoghi tra due tenebrosi montanari… Se fosse stato così, il film avrebbe virato decisamente verso l’inverosimile.

E, comunque, non credo che in America i montanari e i boscaioli facciano gare di oratoria… Anche se poi alcuni di loro sono diventati noti attori parlanti (ma pagati per farlo): Harrison Ford, Steve McQueen, Clark Gable…



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© Gianluca Sposito