Cosa accadrebbe se improvvisamente sentissimo dal cielo una voce cupa annunciare: “Alle 18 avrà inizio il giudizio universale”?

Cesare Zavattini sceneggiò “Il giudizio universale” (1961) immaginando che ognuno di noi correrebbe ai ripari, cioè scaricherebbe le proprie responsabilità per apparire ‘puro’ al momento del Giudizio. E se poi arriva il contrordine?

De Sica, che lo diresse, ne parlò sempre come di un suo film ‘infelice’, che non ebbe la fortuna che meritava, anche se lui lo amava. E lo definì forse troppo moderno per l’epoca in cui fu proposto. “Spesso Zavattini e io abbiamo avuto il difetto di pensare certe cose troppo presto”, spiegò.

Effettivamente, si tratta di un film estremamente originale e moderno. Attraverso dieci storie che si intersecano a Napoli, realizza un vivace affresco della sostanziale ipocrisia dell’umanità, non sopraffatta nemmeno dalla paura del cataclisma, dove l’attimo di sincerità si trasforma presto in un’affannosa ricerca di alibi.

Non a caso, la frase-simbolo del film è quella giustificazione, avulsa dal contesto e vera ultima spiaggia, “Ma io ho la mamma!”, seguita a ruota dal grido corale di tutti gli altri Italiani privi di alibi migliore: “Anch’io ho la mamma!”.

Con un cast, diremmo oggi, stellare: Nino Manfredi, Vittorio Gassman, Paolo Stoppa, Fernandel, Renato Rascel, Silvana Mangano, Anouk Aimée, Jack Palance, Ernest Borgnine, Lino Ventura, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, senza contare i cammei di Domenico Modugno e Mike Bongiorno nella parte di loro stessi.

Ma, su tutti, rifulge un Alberto Sordi impegnato – col coraggio del vero grande attore – in uno dei personaggi più sgradevoli non solo del film ma della sua intera carriera: un trafficante di bambini.

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