Il processo Turetta non è solo l’epilogo giudiziario di un drammatico fatto di cronaca – la morte di Giulia Cecchettin – ma anche l’ennesima occasione per riflettere su come le parole possano essere, al tempo stesso, scudi e spade.
Premessa: la difesa, anche di un reo confesso, è ovviamente indiscutibile e, peraltro, difficile per qualunque difensore. Quello che mi permetto di osservare attiene a qualcosa che, dal punto di vista argomentativo e linguistico-retorico, non ha funzionato. E lo faccio con tutto il rispetto verso il collega impegnato in questa difesa, relatore assieme a me qualche mese fa in un momento di riflessione e formazione dedicato proprio alla comunicazione giudiziaria.
Definire “Turetta non è el Chapo, non è Pablo Escobar”, così come affermare che “l’ergastolo è una pena disumana”, sono espressioni non corrette e fallaci sul piano della comunicazione forense, oltre che devastanti sul piano della comunicazione non forense. Sia decontestualizzate che contestualizzate.
Lo sono perché rappresentano delle fallacie argomentative, cioè figure che, sul piano verbale, fanno le illusioni ottiche: ingannare. Le fallacie sono modi di ragionare errati perché o si parte da premesse false, o si adottano delle inferenze scorrette, o si producono, a sostegno delle proprie tesi, argomenti irrilevanti dal punto di vista razionale.
Purtroppo qui c’è tutto questo. “Turetta non è Escobar” è, nel discorso del difensore, parte di un sillogismo: un sillogismo che diventa fallacia perché, in soldoni, induce a ritenere che l’ergastolo andrebbe inflitto solo a chi davvero è un assassino (come Escobar, che ha numericamente ucciso più persone di Turetta – dato formalmente e logicamente vero). La stessa espressione, poi, sul piano comunicativo puro e mediatico, è ancora più devastante, con le inevitabili riflessioni generate.
Non va meglio con l’altra espressione: “l’ergastolo è una pena disumana”. Perché parte da una premessa falsa relativa all’ergastolo – formalmente detenzione a vita – che, invece, non è – di fatto – una pena detentiva perpetua. E, sul piano comunicativo puro e mediatico, anche questa è un’espressione altrettanto devastante, con ricadute prevedibili (“Non è stato forse disumano uccidere?”).
Tutte queste espressioni – certamente estrapolate da un contesto tecnico ben più corposo e valido – tuttavia rischiano di impoverirlo e di danneggiare l’intera comunicazione svolta. All’interno e all’esterno dell’aula di giustizia.
E, francamente, sono espressioni e ragionamenti che mi lasciano piuttosto perplesso, su molti piani.
Articolo visibile anche su: LinkedIn, Facebook
© Gianluca Sposito