
C’è qualcosa di sfuggente in “Holland”, il thriller maniacale diretto da Mimi Cave e appena approdato su Prime Video. Non sai mai davvero come definirlo: né all’inizio, né durante, né alla fine.
Un film che cambia pelle di continuo, che sembra flirtare con il thriller psicologico, poi con la commedia grottesca, poi con la parabola domestica, poi ancora con qualcosa che potremmo chiamare “allegoria del perbenismo americano”. Ma nulla si lascia davvero afferrare, e questa indeterminatezza può affascinare o disorientare. La trama – contorta? surreale? poco credibile? – sfida ogni tentativo di incasellamento. Forse simbolica? Forse addirittura grottesca? Comunque, l’effetto è indefinito.
Eppure qualcosa rimane. Forse proprio questo spaesamento contribuisce a rendere Holland un’esperienza curiosamente interessante. Forse è quel sottotesto – non troppo sottile – che smaschera certi miti americani fatti di candore, famiglie-bene, onestà di facciata e quiete suburbana. Quando tutto esplode, lo fa nel modo più impacciato e disturbante possibile. E funziona.
Merito anche di Matthew Macfadyen (lo ricordiamo soprattutto in “Succession”), straordinario nel ruolo del marito ambiguo, gelido e quasi impenetrabile. Il suo personaggio è il vero enigma attorno a cui tutto ruota, e la sua interpretazione è quanto di più solido il film possa vantare.
Quanto invece a Nicole Kidman… qui il discorso si fa più complicato. Me lo ripeto ogni volta che la vedo in scena: potrebbe essere una grande interprete, ma quella fissità espressiva – quel volto che fatica a seguire le emozioni – diventa un ostacolo che pesa. È difficile non pensare a un eccesso di trattamenti estetici, che lei stessa ha in parte ammesso in passato. Un volto alla ricerca disperata dell’eternità, che però finisce per perdere tutta l’umanità e la fragilità che un personaggio come questo richiederebbe.
Un paradosso: un film che parla di verità nascoste, maschere e finzioni, dove la protagonista sembra prigioniera di una maschera vera.
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