
Una parola antica, solenne, dimenticata.
Eppure oggi torna a vivere, sul prato verde di Wimbledon.
Il termine diarchia viene dal greco antico δίς (“due volte”) e ἀρχή (“comando”, “potere”). Letteralmente: governo a due teste.
La sua prima grande incarnazione storica fu la Sparta classica, dove – in un sistema unico nel mondo greco – due re regnavano contemporaneamente: uno discendente dagli Agiadi, l’altro dagli Euripontidi. Diversi per stile e ruolo, ma pari in dignità, con poteri che si bilanciavano a vicenda. Una diarchia perfetta, almeno finché durava.
Da allora, la parola riaffiora di rado. La si incontra nella storia romana tardo-imperiale, nei dualismi papato-impero, o in certe forme di monarchia condivisa tra fratelli o consoli. Sempre legata a tensioni, convivenze difficili, equilibri instabili. Perché condividere il potere è più arduo che conquistarne uno assoluto.
E così, oggi, “diarchia” torna con forza per raccontare non un sistema di governo, ma una rivalità sportiva. Una delle più intense, vibranti e moderne.
Sinner e Alcaraz non sono solo due campioni. Sono due re nati nello stesso tempo, nello stesso spazio tennistico. Nessuno dei due è vassallo dell’altro. Si rincorrono, si superano, si rispettano e si sfidano. Quando uno sale, l’altro risponde. Quando uno vacilla, l’altro rilancia. Sono antagonisti, certo, ma anche specchi l’uno dell’altro. L’essenza stessa di una diarchia sportiva.
Oggi non giocheranno solo una finale: scriveranno un altro capitolo di questa epica contemporanea.
Perché il tennis, quando è grande, è anche mitologia.
E ogni grande rivalità – da Achille ed Ettore a Borg e McEnroe – vive nella tensione tra due eroi che si contendono il diritto di essere ricordati.
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© Gianluca Sposito
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