«Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli di amministrazione, redattori di giornali e di telegiornali scrivono, parlano e pensano nell’antilingua.

Caratteristica principale dell’antilingua è quello che definirei il “terrore semantico”, cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato […]. Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente […]. Chi parla l’antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le cose di cui parla, crede di dover sottintendere: “io parlo di queste cose per caso, ma la mia funzione è ben più in alto delle cose che dico e che faccio, la mia funzione è più in alto di tutto, anche di me stesso”. La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza d’un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi. La lingua invece vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d’una pienezza esistenziale che diventa espressione. Perciò dove trionfa l’antilingua – l’italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato” – la lingua viene uccisa» (Italo Calvino, “Per ora sommersi dall’antilingua”, in “Il Giorno”, 3 febbraio 1965; poi in “Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società”, Einaudi, Torino, 1980, pp. 122 ss.)

È piuttosto grave che questo straordinario ritratto sia ancora brutalmente attuale. Ecco perché continuo a riproporlo in molti dei miei libri e dei miei interventi, e anche qui, in un post che ha 60 anni in meno di quelle riflessioni. Eppure sono le stesse che io, e pochi altri, continuiamo a fare.


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