
Quando pensiamo a “Blade Runner”, le prime immagini che affiorano alla mente sono quelle di una Los Angeles oscura e piovosa, attraversata da luci al neon e sguardi di replicanti in cerca di un significato. Eppure, l’anima di questo capolavoro cinematografico nasce molto prima delle pellicole: tra le pagine di un romanzo che sussurra domande esistenziali mascherate da fantascienza.
Philip K. Dick, maestro del dubbio e del surreale, ci regala con “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” (1968) un mondo che si muove tra il reale e il simulato, tra umanità e artificialità. Ambientato in una Terra devastata da una guerra nucleare, il romanzo segue il cacciatore di taglie Rick Deckard, incaricato di “ritirare” androidi che si spacciano per esseri umani. Ma qui la caccia diventa riflessione: che cosa distingue un umano da una macchina? È solo questione di cellule e circuiti, o c’è qualcosa di più?
Il titolo stesso è un enigma. Le pecore elettriche non sono semplici animali robotici: sono simboli di uno status sociale, di un’umanità che si aggrappa a simulacri di normalità. Ma Dick ci porta oltre. Gli androidi possono sembrare freddi e meccanici, ma nel corso del romanzo cominciano a rivelare una struggente ricerca di identità, desideri che non sono così diversi da quelli umani.
Questa complessità è ciò che Ridley Scott ha distillato nel suo “Blade Runner”, rendendo visibile l’invisibile: il dilemma morale di un futuro in cui la linea tra uomo e macchina si dissolve. Deckard si confronta con replicanti che sanno amare, odiare, e temere la morte, e noi ci troviamo a chiederci: chi è davvero la macchina?
L’opera di Philip K. Dick non è solo il seme da cui è nato il film; è una profezia, un avvertimento. Ci invita a guardarci allo specchio e a chiederci cosa ci rende umani in un mondo sempre più artificiale. E se anche noi, in fondo, sognassimo pecore elettriche?
© Gianluca Sposito
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