
Ci sono thriller che funzionano bene e poi ci sono quelli che non ti lasciano andare, che continuano a lavorarti dentro anche dopo i titoli di coda. “Prisoners” di Denis Villeneuve è uno di questi. Non è solo un film sul rapimento di due bambine, non è solo un gioco di tensione, è un viaggio nelle profondità più oscure della disperazione umana.
Hugh Jackman è Keller Dover, un padre qualunque, finché il peggiore degli incubi non si realizza: sua figlia e un’amichetta scompaiono nel nulla. La polizia, guidata dal detective Loki (Jake Gyllenhaal), fa il suo lavoro, ma Keller è convinto che il sospettato principale, il misterioso e disturbato Alex Jones (Paul Dano), sappia più di quello che dice. A quel punto, la giustizia diventa un concetto sfumato: fin dove può spingersi un padre per avere risposte?
Denis Villeneuve costruisce un film che è un orologio a ingranaggi perfetti. Le atmosfere cupe, il freddo penetrante della periferia americana, la fotografia di Roger Deakins (sempre lui, sempre geniale) rendono tutto ancora più soffocante. Prisoners non ha fretta, ti costringe a stare dentro la tensione, a sentirne il peso. E il bello è che, proprio quando pensi di aver capito tutto, il film ti spiazza ancora.
Le performance degli attori sono straordinarie: Jackman è furioso, animale, disperato. Gyllenhaal è magnetico, con quei tic nervosi e quello sguardo che dice più di mille parole. Paul Dano? Inquietante al punto giusto. E poi c’è Melissa Leo, da tenere d’occhio fino all’ultimo fotogramma.
Questo non è un thriller d’azione, non è un film che dà risposte facili. “Prisoners” è un viaggio angosciante dentro il concetto di giustizia, di vendetta e di colpa. Dopo dieci anni (l’ho rivisto ieri), resta ancora uno dei migliori film di Villeneuve, con una narrazione lineare ed efficace. E una volta visto, è difficile dimenticarlo. A differenza dell’ultimo “Dune”.
Disponibile in streaming su Amazon Prime Video.
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Testo di © Gianluca Sposito. Tutti i diritti riservati.
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