Da poco approdato su Netflix, “Il Nibbio” è il film di Alessandro Tonda che porta sul grande (e ora piccolo) schermo la drammatica vicenda di Nicola Calipari, l’alto dirigente del SISMI ucciso in Iraq nel 2005 durante la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena. Con Claudio Santamaria nel ruolo del protagonista, il film ha raccolto recensioni piuttosto contrastanti: da un lato lodi per l’intento civile e l’interpretazione del suo attore principale, dall’altro dubbi sul suo approccio narrativo.

Il film ripercorre i 28 giorni del rapimento della giornalista de Il Manifesto, Giuliana Sgrena (interpretata da Sonia Bergamasco), a Baghdad, e l’operazione d’intelligence guidata da Calipari per riportarla a casa. Il titolo stesso, Il Nibbio, era il nome in codice dell’agente. La narrazione si concentra non solo sulle tese trattative e le operazioni sul campo, ma anche sulla dimensione privata e familiare di Calipari, offrendo un ritratto intimo dell’uomo dietro il funzionario dello Stato.

Il punto di forza universalmente riconosciuto del film è l’interpretazione di Claudio Santamaria. Inequivocabile la sua capacità di restituire un ritratto umano, misurato e intenso, lontano da facili agiografie. Santamaria dona al personaggio spessore e un calore che permette al pubblico di entrare in empatia con il dramma personale e professionale del protagonista.

Tuttavia, il film sceglie la strada più sicura del dramma commemorativo, evitando di esplorare le ambiguità e le complesse implicazioni politiche e internazionali della vicenda. La narrazione, pur efficace nel costruire tensione, tende a semplificare i fatti, presentando un eroe senza ombre per non turbare lo spettatore. Che invece andrebbe turbato, eccome, se solo si avesse il coraggio di raccontare altro. Cosa?

Ciò che il film non affronta è la responsabilità dei soldati americani e l’insabbiamento politico-giudiziario che ne seguì. L’Italia chiese di processare Mario Lozano, il soldato che sparò, ma gli Stati Uniti negarono l’estradizione. La giustizia italiana dichiarò poi il non luogo a procedere per “difetto di giurisdizione”, appellandosi di fatto all’immunità garantita ai militari delle forze occupanti. Un epilogo che ha lasciato un profondo senso di frustrazione e impotenza, facendo passare l’idea che un servitore dello Stato italiano possa essere ucciso da un soldato alleato senza che vi siano conseguenze. Parlarne significherebbe toccare i nervi scoperti della sovranità limitata e dell’impunità tollerata. E, infatti, non se ne parla.

“Il Nibbio” ha l’indubbio merito di riportare alla memoria una pagina dolorosa della nostra storia recente, sorretto da una prova attoriale di altissimo livello. Ma appare convenzionale per la scelta – rispettabile sul piano artistico, ma discutibile su quello civile – di non addentrarsi nei lati più oscuri e scomodi di una vicenda il cui tragico epilogo, a vent’anni di distanza, resta una ferita aperta.

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© Gianluca Sposito


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