Giuseppe Antonelli, docente di Linguistica nell’Università di Pavia, in un recente articolo apparso su Sette, settimanale del Corriere della Sera, analizza la “lingua di Berlusconi” e i 41 neologismi nati con lui.

Berlusconi è il primo presidente del Consiglio che ha abbandonato il “politichese”, per parlare il “gentese”, cioè una lingua chiara e semplice in grado di entrare immediatamente in contatto con la gente», si leggeva già nel Corriere il 19 maggio del 1994, dopo la “discesa in campo”. Il passaggio dal paradigma della superiorità a quello del rispecchiamento, osserva Antonelli, è stato una rivoluzione copernicana.

Da quel momento in poi, l’italiano non sarà più lo stesso, perché Berlusconi ha lasciato un segno nella lingua anche con i suoi slogan («meno tasse per tutti»), i suoi modi di dire («mettere la mani nelle tasche degli italiani»), le sue definizioni («illiberale»), i suoi intercalari («mi consenta»).

E ulteriore segno del suo passaggio è la straordinaria mole di parole coniate a partire dal suo cognome. Limitandosi a qualche esempio: antiberlusconiano, berlus-trash, berluscallergico, berluschese, e via dicendo. Ben 41, ne conta Antonelli.

Vorrei però aggiungere qualche ulteriore riflessione. La vera rivoluzione di Berlusconi è stata certamente nella comunicazione, nel passaggio dal formale-incomprensibile all’informale-comprensibile. Il politico-tipo, prima, parlava parlava parlava, senza tuttavia raggiungere il suo interlocutore. Ricordo perfettamente, negli anni ’80, politici di primo rango – magari con salda cultura di base – parlare in modo oscuro e non certo efficace. Già da ragazzo – prima di approfondire, dunque, gli studi su linguaggio e comunicazione – mi chiedevo perché un politico dovesse comunicare in quel modo. Poi è arrivato Lui, e la mia osservazione è stata: questo spariglia. Bene. 

Poi però è arrivata anche la domanda che ci si pone dopo tutte le réclame: funziona o è solo pubblicità?

Insomma, credo che la comunicazione, soprattutto politica, non possa essere valutata solo nel momento in cui viene riversata sul pubblico, cercando di intercettare consensi, ma necessiti di un periodo di attenzione più ampio: una sorta di “tempo di decadimento”, come per gli elementi radioattivi. Uno dei suoi elementi fondamentali è infatti l’ethos, che sinteticamente potremmo definire come ‘autorevolezza’ di chi comunica, e deriva dal suo comportamento, dai risultati conseguiti ecc. L’ethos si costruisce, dunque, con il raccolto di quanto promesso e seminato. Ma la verifica non è sempre positiva; e, senza risultati, quel tempo di decadimento porta solo a scorie impoverite, residui non sempre utili (anche se ancora pericolosi).

p.s. mi scuso con i fisici per l’uso figurato di termini tecnici.



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© Gianluca Sposito