
Papa Francesco ha rivoluzionato anche il linguaggio della Chiesa, rompendo con lo stile curiale tradizionale e introducendo espressioni che sono diventate simboli del suo pontificato: dalla “Chiesa in uscita” ai “pastori con l’odore delle pecore”, fino alla “globalizzazione dell’indifferenza” e alla “cultura dello scarto”. Le sue parole – spesso metaforiche, a volte dure, altre inventate – hanno voluto avvicinare la Chiesa al mondo reale, mostrando una compassione concreta (“ospedale da campo”) e un netto rifiuto del clericalismo e del formalismo spirituale (“mondanità spirituale”, “cristiani da salotto”).
Ma Francesco ha fatto anche molto di più: ha creato neologismi come “indietrismo”, “misericordiare”, “nostalgiare”; ha usato immagini nuove come “balconare” (guardare la vita da spettatori) o “faccia di aceto” (per indicare chi vive la fede in modo arcigno). E non ha temuto incursioni nella cultura pop, come quando ha criticato una religiosità vaga parlando di un “Dio spray” che starebbe dappertutto, ma che non si sa bene chi sia.
Il suo stile diretto e colloquiale ha suscitato anche polemiche, soprattutto quando è scivolato in espressioni considerate offensive o inopportune. Ma, nel bene e nel male, ha saputo trasformare le parole in strumenti di impatto pastorale, sociale e culturale. Un lessico vivo, che lascia il segno e costringe a pensare.
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