Come mia abitudine, dopo aver visto un film e prima di parlarne, do uno sguardo a quanto ne pensano gli altri. Nel caso di “Maria” (2024, regia di Pablo Larraín, con Angelina Jolie, da ieri su Sky), ho letto di tutto – e non sempre positivo. Anzi.

Su cosa si può essere d’accordo? Sul fatto che si tratti di una decostruzione di una leggenda. Ma non certo sulla pretesa (ingenua) di una maggiore profondità. Narrativa? Il taglio è preciso e deliberato, e va rispettato. Biografica? Spiacente, ma non è un documentario.

C’è chi ha definito il film “formalmente appariscente e narrativamente vuoto”. Una valutazione ingenerosa. Le scelte stilistiche sono affascinanti, la ricostruzione dell’epoca è curata, funzionale. E ci sono momenti di rara intensità visiva, capaci di regalare piacere puro a chi ama il cinema. Non a caso Edward Lachman ha ricevuto una nomination all’Oscar per la fotografia.

Favino e Rohrwacher, in ruoli di domestici (realmente italiani) della ‘diva’, fanno bene il loro dovere. Anche se potrebbero fare tanto altro, pure recitando in inglese.

La Jolie? Troppo artefatta, ormai, per risultare davvero interessante come attrice. È come se la sua presenza scenica si fosse trasformata in simulacro.

E poi, permettetemi un pensiero più ampio. Tutti questi personaggi, di ieri come di oggi — Callas compresa, accanto a Jackie (Kennedy+Onassis), J.F. Kennedy, Gianni Agnelli e compagnia (solo cantante?) — ci appaiono spesso come figure ‘spaccanti’, per usare un lessico recente (grazie, Raoul Bova, ora il mio vocabolario è più completo). Ma se guardiamo a ciò che hanno effettivamente fatto, forse siamo davanti a una sopravvalutazione collettiva. Un po’ come per certi influencer contemporanei.

Tempi duri, tempi bui, che però… continuano a spaccare.
Grazie ancora, Bova.
Ah, no, scusa: qui l’ho scritto secondo quanto s’usava fino a ieri (manca solo il complemento oggetto…).

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© Gianluca Sposito


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