Ho rivisto “Drive” (2011), regia di Nicolas Winding Refn (premiato a Cannes), con uno straordinario Ryan Gosling), e non c’è niente da fare: è un film che ti prende per sottrazione. Perché mentre molti si fermano alla lentezza apparente, chi ci entra dentro scopre un ritmo che è invece pieno, denso, calibratissimo. Ogni silenzio è scelta, ogni attesa è tensione, ogni inquadratura pesa quanto un colpo.

Un silenzioso meccanico e stuntman di Hollywood conduce una doppia vita come autista per criminali. Ma quando prova ad aiutare la persona sbagliata, finisce invischiato in una spirale di violenza che non lascia scampo.

Gosling è perfetto nel ruolo del protagonista senza nome: occhi vuoti e gesti minimi, si muove con una calma serafica che ha qualcosa di mistico. Ma proprio per questo, quando esplode la brutalità (e sì, ce n’è parecchia), l’effetto è devastante: non è mai gratuita, ma sempre scioccante. Perché Drive è anche questo: un’estetica dell’opposto, che accosta tenerezza e violenza, sussurri e rumore, notte e neon.

Non amo la violenza al cinema quando è fine a sé stessa. Ma qui – e solo qui – riesco ad accettarla: esasperata, antitetica, disturbante nella sua bellezza visiva, è la manifestazione esterna di un conflitto interiore che il film non esplicita mai fino in fondo.

Insomma, Drive resta un film unico, da vedere, rivedere e – se si riesce – da capire un po’ di più ogni volta.

Basato sull’omonimo romanzo di James Sallis, è disponibile su Amazon Prime Video.

***

© Gianluca Sposito


Ultimi post:


L’autore: